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giovedì 19 aprile 2012

Fascia C, in farmacia o anche altrove? Lo deciderà la Corte di Giustizia

A seguito del ricorso di una titolare di parafarmacia, il Tar Lombardia rinvia al giudice europeo il divieto di vendita di farmaci della fascia C su ricetta bianca in esercizi diversi dalla farmacia, per una valutazione che chiama in causa principi importanti come la libertà d'impresa e la tutela dell'interesse generale.
La risposta della Cour de Justice potrebbe far uscire dalla finestra ciò che non è uscito dalla porta


di Laura Giordani*

Proprio mentre l’interesse dei farmacisti sembra essere tutto puntato sulla recentissima conversione del decreto legge n.1/2012 nella legge n. 27/2012 e sulle rilevanti novità introdotte dall’art.11 in materia di farmacie, sul piano giurisdizionale si riapre un’altra rilevante questione, quella della vendita dei farmaci di fascia C all’interno delle cosiddette “parafarmacie”. Questione che, come si ricorderà, era stata al centro di un infuocato dibattito già alla fine dello scorso anno, in occasione del varo del decreto governativo passato alla storia come “decreto Salva Italia”, e che aveva poi trovato esito nell’art. 32 della legge di conversione dello stesso decreto (la n. 214/2011, per la cronaca), dove viene confermata l’interdizione alla vendita dei farmaci di fascia C al di fuori delle farmacie e rinviata a un successivo atto la stesura di una lista di medicinali da escludere dalla stessa fascia C e da ammettere quindi alla vendita anche nelle parafarmacie.
A riaprire i giochi è intervenuta l’ordinanza del Tar Lombardia, Sezione III, del 22 marzo 2012 n. 895, con la quale è stata rimessa alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee la seguente questione pregiudiziale: “Se i principi di libertà di stabilimento, di non discriminazione e di tutela della concorrenza di cui agli articoli 49 ss. TFUE, ostano a una normativa nazionale che non consente al farmacista, abilitato e iscritto al relativo ordine professionale ma non titolare di esercizio commerciale ricompreso nella pianta organica, di poter distribuire al dettaglio, nella parafarmacia di cui è titolare, anche quei farmaci soggetti a prescrizione medica su “ricetta bianca”, cioè non posti a carico del SSN e a totale carico del cittadino, stabilendo anche in questo settore un divieto di vendita di determinate categorie di prodotti farmaceutici e un contingentamento numerico degli esercizi commerciali insediabili sul territorio nazionale”.
A dirla in breve, il giudice amministrativo, con l’ordinanza di cui parliamo, ha sottoporre al vaglio della Corte di Giustizia delle Comunità Europee la norma che vieta alle parafarmacie di vendere i farmaci di fascia C su ricetta.

Parafarmacie e Fascia C,
una ragnatela di ricorsi


La vicenda è la seguente: la ricorrente, titolare di una parafarmacia nel Comune di Saronno, ha impugnato dinanzi al Tar (con un ricorso peraltro identico ad altri presentati da farmacisti titolari di parafarmacia in diverse province e Regioni d’Italia e allo stato pendenti) il diniego del ministero della Salute alla sua richiesta di vendita di medicinali di cui all’art.87 comma 1, lett. a e b) d.lgs 219/06 (ricetta bianca), ovvero di farmaci a totale carico del cittadino acquirente senza richiesta di rimborso da parte del servizio sanitario regionale e nazionale, nonché di tutte le specialità medicinali per uso veterinario soggette a ricetta medica, anch’esse a totale carico del cittadino acquirente, senza richiesta di rimborso da parte del servizio sanitario regionale o nazionale (queste ultime, peraltro, sono ormai vendibili anche al di fuori delle farmacie ai sensi e per gli effetti dell’art. 11 comma 14, L. n. 27/2012). La normativa su cui essi sono fondati, secondo la ricorrente, sarebbe contraria al diritto dell’Unione Europea, nella parte in cui osta alla vendita dei medicinali di fascia C soggetti a prescrizione ma non a carico del Ssn.
Due gli argomenti cardine su cui si fonda il ricorso della farmacista proprietaria dell’esercizio di Saronno: il farmacista in possesso di laurea e dei titoli riconosciuti dallo Stato, regolarmente iscritto all’ordine, è abilitato a dispensare in farmacia tutti i medicinali; la parafarmacia introdotta con la legge Bersani è un esercizio riconosciuto dalla legge, soggetto alle norme vigenti anche per le farmacie (tracciabilità, conservazione, ecc.); dunque, non si comprende la ragione per cui il farmacista che opera in una parafarmacia possa dispensare soltanto farmaci non soggetti a prescrizione medica.
Con la già ricordata ordinanza n. 895/2012, il Tar Lombardia ha così rimesso la questione alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, sostenendo che non vi sarebbero motivazioni per impedire la vendita di questi farmaci anche nelle parafarmacie. Anzi, la disciplina italiana sembrerebbe in contrasto con la normativa europea (art. 49 TFUE) “in quanto idonea a rendere di fatto impossibile lo stabilimento di un farmacista in Italia che voglia accedere al mercato dei farmaci di fascia C, oltre che rendere più difficile lo svolgimento di tale attività economica nel mercato nazionale”.
Secondo il giudice amministrativo “non sembrano esserci motivi che possano giustificare una tale restrizione all'esercizio di una libertà economica, né vi è alcuna motivazione legata all'obiettivo di ripartire in modo equilibrato le farmacie nel territorio nazionale, né di aumentare la sicurezza e qualità dell'approvvigionamento della popolazione di medicinali, di un eccesso di consumo o di ammontare di risorse pubbliche assorbite”. Conseguenza diretta e immediata della remissione della questione alla Corte di Giustizia è la sospensione del giudizio fino alla definizione della questione pregiudiziale. Il che, si badi, non vuol dire - come molti tanto disinvoltamente quanto erroneamente hanno scritto - che da oggi sia divenuta legittima, in conseguenza di tale decisione, la vendita dei farmaci di fascia C nelle parafarmacie.

Rinvio pregiudiziale,
cosa è, cosa comporta


Il sistema del rinvio pregiudiziale, regolato dall'articolo 234 del Trattato istitutivo della Comunità europea (Trattato CE), consente al giudice nazionale di sottoporre alla Corte di Giustizia UE una o più questioni di diritto comunitario che dovessero emergere nel corso del giudizio innanzi a sé pendente e dalle quali dipende la soluzione della lite, ed è ovviamente il giudice nazionale a dover indicare caso per caso, perché l'interpretazione richiesta è necessaria per pronunciare la sua sentenza.
La “pregiudizialità” di tale procedimento si manifesta non solo nel fatto che il giudice nazionale, una volta sollevata la relativa domanda, deve sospendere il giudizio in attesa della decisione della Corte sul punto o sui punti evidenziati (ferma restando la possibilità di adottare eventuali provvedimenti cautelari che, nel caso in esame, non sono stati adottati, talché il diniego alla vendita da cui tutto ha preso le mosse è allo stato legittimo e dunque esecutivo), ma anche nel fatto che la sentenza della Corte di Giustizia precede dal punto di vista sia cronologico sia logico quella del giudice nazionale, essendo strumentale e necessaria rispetto a quest’ultima.
La Corte non può entrare nel merito specifico della scelta degli strumenti per perseguire le varie finalità a livello Paese. Il diritto alla salute e la libertà di impresa sono entrambi presenti nel Trattato delle Comunità Europee come lo sono nella Costituzione italiana e se un Legislatore nazionale afferma di aver posto dei vincoli alla concorrenza è perché, nella sua sovrana valutazione, questi sono importanti per la tutela della salute: ecco perché la Corte di Giustizia non può sindacare il “quantum”, ma si limita a riconoscere la coerenza interna della legge nazionale con la normativa comunitaria.
Spetterà poi al giudice nazionale il compito di trarre dalla decisione della Corte le conseguenze utili alla risoluzione della lite, disapplicando le norme nazionali eventualmente configgenti con la soluzione interpretativa della Corte.
Ciò posto, nel caso in esame le motivazioni addotte dal Tar a sostegno della decisione di rinvio alla Corte sono così sintetizzabili: a) non vi è alcuna motivazione legata all’obiettivo di ripartire in maniera equilibrata le farmacie nel territorio nazionale e di assicurare in tal modo a tutta la popolazione un accesso adeguato al servizio farmaceutico; b) non vi è la motivazione di aumentare la sicurezza e la qualità dell’approvvigionamento della popolazione in medicinali; c) non vi è il rischio derivante da un eccesso di consumo, neppure in termini di ammontare di risorse pubbliche assorbite.
A fronte di tali argomentazioni se ne impone un’altra, forse pregiudiziale, e cioè che l’art. 5 del Dl 223/2006 (decreto Bersani) come modificato dalla legge di conversione n. 248/2006, non parla di parafarmacie (termine coniato dai farmacisti e ormai invalso nell’uso comune) ma di “esercizi commerciali diversi dalle farmacie” ovvero: − gli esercizi di vicinato, ossia quelli aventi superficie di vendita non superiore a 150 mq. nei comuni con popolazione residente inferiore a 10.000 abitanti e a 250 mq. nei comuni con popolazione residente superiore a 10.000 abitanti; − le medie strutture di vendita, ossia gli esercizi aventi superficie superiore ai limiti di cui al punto precedente e fino a 1.500 mq nei comuni con popolazione residente inferiore a 10.000 abitanti e a 2.500 mq. nei comuni con popolazione residente superiore a 10.000 abitanti; − le grandi strutture di vendita, ossia gli esercizi aventi superficie superiore ai limiti di cui al punto precedente.
Come è noto all’interno di questi esercizi commerciali è consentita la vendita di farmaci OTC o SOP purché a determinate condizioni: durante l’orario di apertura dell’esercizio commerciale; nell’ambito di un apposito reparto; alla presenza e con l’assistenza personale e diretta al cliente di uno o più farmacisti abilitati all’esercizio della professione ed iscritti al relativo Ordine.
Questo per dire che, ove venisse accolta la tesi prospettata dal Tar nell’ordinanza in commento e la Corte di Giustizia si pronunciasse in tal senso, le conseguenze potrebbero essere diverse e maggiori di quelle previste ovvero non limitarsi alle cosiddette parafarmacie.
È chiaro che per un commento definitivo occorrerà attendere l’esito del giudizio dinanzi alla Corte della Cour de Justice che, è bene ripeterlo, non può sostituirsi ai policy maker nazionali; né riconsiderare il corpus normativo e regolamentare esistente in una prospettiva di riorganizzazione, ristrutturazione e ammodernamento. Ciò non di meno, la questione in esame lascia presagire che le decisioni adottate dal governo Monti e approvate dal Parlamento in tema di “parafarmacie” potrebbero non considerarsi definitive. E per usare un eufemismo, quel che non è uscito dalla porta potrebbe alla fine uscire dalla finestra.

*avvocato

Cara Laura

La tua è un'analisi, lucida, puntuale ed esaustiva ed anche a me sembra un pò esagerato ritenere che il solo fatto che il Giudice amministrativo avendo rimesso il caso alla Corte Europea abbia creato uno "spazio normativo" che permetta la vendita dei farmaci su prescrizione ma non a carico del SSN fuori dalla Farmacia.
Anch' io credo che la norma europea a tutela del diritto alla salute ed alla libertà d'impresa non contrasti con i vincoli messi dal nostro legislatore che ha così ritenuto di tutelare maggiormente i cittadini, forse riconoscendo un valore maggiore alla salute, penso che questo faccia parte di quella "libertà di valutazione" concessa agli Stati Sovrani.
Questo è solo un problema e credo che la confusione creata dalle recenti novità legislative produrrà un gran contenzioso su tanti argomenti.
Quello che non è uscito dalla porta uscirà dalla finestra....niente di più sensato!

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